# 288 – Paul Fischer – UNA PRODUZIONE KIM JONG-IL (Bompiani, 2015, pagg. 395)
La storia vera di Shin Sang-Ok e Choi Eun-Hee, rispettivamente uno dei più noti registi cinematografici coreani del secondo dopoguerra e sua moglie, attrice notissima in Corea del Sud, nonché direttrice di una celebre scuola di recitazione. Fondatori della Shin Film, casa di produzione con base a Seul, e diventati ricchi realizzando film poco spendibili sul mercato internazionale, ma di grande successo in Corea, Shin e Choi conoscono sia le vette della fama e della ricchezza quanto il precipizio del fallimento economico e del divorzio, quando la Shin Film inizia a perdere colpi e invece dei successi inanella un flop dopo l’altro. È a questo punto che Kim Jong-Il, figlio cinefilo di Kim Il-Sung, dittatore della Corea del Nord, li mette nel suo mirino: deciso a rilanciare l’asfittica cinematografia nordcoreana, capace fino a quel momento d produrre solo indigeribili mattoni ultra-ideologizzati e tecnicamente improponibili, Kim Jong-Il fa rapire dai suoi agenti segreti prima l’attrice Choi e, in un secondo tempo, l’ex-marito Shin che, dopo aver fallito nel tentativo di portare sullo schermo il romanzo “First Blood” (da cui Ted Kotcheff avrebbe tratto di lì a pochi anni “Rambo”) si era messo sulle tracce della ex-moglie, deciso a scoprire cosa le fosse capitato. E così dal 1978, per diversi anni, Shin e Choi saranno “ospiti” in Corea del Nord, costretti a realizzare film per il Caro Leader, lontani dai figli e dagli affetti, considerati traditori dalla Corea del Sud e dal mondo occidentale. L’occasione per scappare arriverà solo a metà degli anni Ottanta, durante un viaggio sotto sorveglianza a Vienna, e con la complicità di un giornalista giapponese. Ma anche il ritorno in seno all’Occidente non porterà grandi gioie a due artisti segnati dal sospetto: furono veramente rapiti, o andarono volontariamente in Corea del Nord per rilanciare le loro languenti carriere?
Un libro simile, che unisce Corea del Nord e cinema, non poteva proprio sfuggirmi. L’eremitico ed enigmatico Paese orientale, ultima vera dittatura comunista dura e pura (ammesso che si possa ancora chiamare “Comunismo” la dottrina personalizzante e divinizzatrice della famiglia Kim, giunta alla terza generazione al potere con il bombarolo obeso Kim Jong-Un) mi incuriosisce da molti anni, mentre il cinema – chi mi segue lo sa – è la passione di una vita, sbocciata quando avevo dodici anni o poco più e, nonostante tutto, ancor oggi molto viva.
Da ragazzo giravo film mettendo in campo tutto quello che potevo, e mi appoggiavo a parenti e amici trascinando un po’ tutti (e i miei compagni di scuola, da Gabriele Caprotti a Stefano Pigato, da Francesco Suriano a Marco e Gianluca Monetti, nonché le mie cugine Elisa e Federica, ne sanno qualcosa) in imprese ai limiti dell’impossibile, con mesi e mesi di riprese spesso realizzate a discapito dello studio e dei compiti.
Questa stessa bruciante passione la ritrovo nella figura (per certi aspetti commovente) di Shin Sang-Ok, regista un po’ raffazzonato, emerso nel bailamme del secondo dopoguerra, quando un’occasione c’era per tutti, e finito nelle grinfie di uno dei più folli e assurdi dittatori di tutti i tempi, Kim Jong-Il, cinefilo sfegatato capace di grandi slanci di generosità come anche di accessi di rabbia e di violenza senza limiti (lo stesso Shin fu imprigionato, in Corea del Nord, e torturato per tre anni, prima di decidersi ad assecondare i magniloquenti sogni di celluloide del dittatore).
La storia vera di Shin e Choi, rapiti e costretti a fare film per un regime sanguinario, è raccontata da Paul Fischer (giovane produttore cinematografico statunitense) con ordine e completezza, sulla base di buone ricerche svolte anche in prima persona, e il risultato è un libro forse un po’ lungo (certi passaggi potevano essere limati senza che la materia perdesse di fascino e di interesse) ma indubbiamente gradevole, non foss’altro per lo sguardo che consente di gettare sul mondo coreano – tanto del Nord quanto del Sud – strano e distante, per noi europei, e più sfaccettato di quanto si possa credere.
Purtroppo, però, la cura editoriale di Bompiani è pessima (il volume è pieno di refusi e di errori, di nomi scambiati e di date sbagliate, come se fosse stato tradotto e editato con la mano e l’occhio sinistri tanto per mettere in catalogo un titolo originale e interessante) e l’Autore conosce abbastanza il cinema per scriverne con competenza, ma non è un vero scrittore e anziché costruire un appassionante saggio-thriller, sulla falsariga di un Carrère, si limita a svolgere un ordinato e pulito compitino che non delude sotto il profilo della completezza ma che, alla lunga, non fa realmente palpitare il lettore, e appare più la calcolata rievocazione di un caso unico, che non può non stupire per la sua bizzarria, che il sincero e sentito racconto di due parabole umane tra le più incredibili della storia del cinema.
Si legge con piacere (imprecando per la sciatteria degli editor Bompiani) ma non ci si eleva mai al di sopra dell’onesto “saggio narrativo”, ben confezionato ma, tutto sommato, con poca personalità.
(Recensione scritta ascoltando Frances Yip, “Arirang”)
PREGI:
la storia è interessante di per sé, e gli aneddoti sulla Corea del Nord sono imperdibili, soprattutto per chi è incuriosito dal Paese-bunker governato dai Kim. L’Autore si impegna a far spiccare le figure di Shin e Choi e non rinuncia qui e là a seminare qualche dubbio, e a interrogarsi sull’effettiva veridicità della vicenda che narra, senza mai complicare troppo il racconto
DIFETTI:
un po’ impersonale nell’impianto narrativo, il libro avrebbe forse tratto giovamento da un maggiore coinvolgimento dell’Autore stesso che, alla Carrère, avrebbe potuto mettersi in scena un po’ di più, raccontare qualcosa del proprio lavoro di ricerca (è stato anche a Pyongyang e ha parlato con molti dei protagonisti della vicenda). Così, il libro è fatalmente un po’ stancante, come se, da un certo punto in avanti, fosse un film in cui succedono troppo poche cose. Incommentabile la cura editoriale: basti dire che il più celebre film di Shin, “Pulgasari” – sorta di “Godzilla” nordcoreano – viene citato per tutto il libro con l’errata grafia “Pulsagari”. Errare è umano, okay, ma perseverare…
CITAZIONE:
“Tutto è assurdo e tutto è falso, ma non importa. La stessa Corea del Nord, in quanto produzione di Kim Jong-Il, è diventato uno Stato-teatro: un’esperienza ritualizzata, un sistema di simboli, spettacoli e rappresentazioni concepite per mantenere l’autorità e la legittimità di un sistema che non ne ha alcuna.” (pag. 351)
il giorno del loro matrimonio nel 1953
GIUDIZIO SINTETICO: **
LEGENDA RECENSIONI
Sia per i libri che per i film, adotto nel giudizio sintetico il sistema Mereghetti, che va da 0 a 4 stelline: a 0, ovviamente, i giudizi più negativi, a 4 quelli più positivi, con tutti i possibili gradi intermedi…