LA CRIPTA DEI CAPPUCCINI – Joseph Roth

# 350 – Joseph Roth – LA CRIPTA DEI CAPPUCCINI (Adelphi, 1989, ediz. orig. 1950, pagg. 195)

“Il fratello di mio nonno era quel semplice sottotenente di fanteria che nella battaglia di Solferino salvò la vita all’imperatore Francesco Giuseppe.” Così si presenta il protagonista e voce narrante del più celebre romanzo di Joseph Roth: un membro della famiglia Trotta, originaria di Sipolje, in Slovenia, e già al centro del quasi altrettanto celebre “La marcia di Radetzky”. Nato e cresciuto a Vienna tra gli agi economici della piccola nobiltà e la brillantezza intellettuale e culturale della Duplice Monarchia, il protagonista dovrà vedersela dapprima con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, che cancellerà il mondo cui egli era apparteneva, e in un secondo tempo con la nascita e il travolgente successo del Nazionalsocialismo, che porterà alla famosa Anschluss del 1938, l’annessione forzata dell’Austria (che già era un rimasuglio dell’antico impero) alla Germania hitleriana. E proprio nel giorno dell’Anschluss al protagonista, lasciato dalla moglie e rimasto solo dopo la morte dell’amatissima madre, non resterà che cercare consolazione nel luogo in cui riposano gli imperatori di un mondo che fu, e che non tornerà mai più…  

“La Cripta dei Cappuccini” non è un romanzo: è un necrologio. Il più vero e partecipativo necrologio dell’Austria-Ungheria, quel mondo sovranazionale che aveva anticipato la multietnicità ma che era collassato sotto il peso della sconfitta nella guerra del 1914-18, costringendo all’esilio l’ultimo Asburgo, Carlo I, e frammentandosi in vari Stati tutti, a diverso titolo, entrati nel corso del ventennio successivo nelle mire espansionistiche della Germania hitleriana da una parte e dell’Unione Sovietica staliniana dall’altra.

Se “La marcia di Radetzky” celebrava ancora l’epopea dell’Impero Asburgico e, pur anticipandone chiaramente la fine, si fermava un passo prima, descrivendo un mondo crepuscolare e senescente (rappresentato proprio dall’anziano Francesco Giuseppe) ma rievocando altresì i fasti di un passato più o meno recente, “La Cripta dei Cappuccini” spinge lo sguardo fino alla fine e oltre, descrivendo con una lucidità a tratti impressionante la devastazione (soprattutto morale) della Grande Guerra e il grigiore del ventennio successivo, culminato con l’annessione alla Germania di quello che era stato, a tutti gli effetti, il grande contraltare della Germania stessa, l’Austria degli Asburgo, patria di undici nazionalità diverse, Paese con mille contraddizioni che però non avrebbe mai consentito la barbarie dell’Olocausto.

Quello che Stefan Zweig, con una locuzione divenuta celebre, definì “mondo di ieri” è la sostanza stessa della scrittura di Joseph Roth, che di quel mondo fu suddito, e “La Cripta dei Cappuccini” è, per dimensioni e intensità, il più efficace dei suoi libri, un piccolo romanzo che contiene in egual misura romanticismo, decadentismo e modernismo. Con tutto ciò, attenzione, non voglio affermare che si tratti di un libro esente da difetti. Ne ha, anzi, una montagna: è un po’ “vecchio” nello stile, che non ha certo la brillantezza e il rigore argomentativo di quello musiliano; è a tratti incredibilmente ingenuo nel tratteggiare caratteri e nel descrivere snodi di trama, non avendo l’estrosa genialità di uno Stefan Zweig; è stilisticamente affettato e vagamente autocompiaciuto, senza arrivare alle vette di un Eduard von Keyserling; e, per concludere, i suoi colpi di scena e il suo ritmo non si avvicinano neanche all’originalità di un Alexander Lernet-Holenia.

Ma allora perché “La Cripta dei Cappuccini” dovrebbe essere un capolavoro? Semplice: perché, in fondo, è un libro che accetta i propri difetti come li accettava la Duplice Monarchia, e li fa coesistere in una armonia unica, tanto che lo si legge d’un fiato e, arrivati all’ultima pagina, è quasi impossibile non versare qualche lacrima assieme al perennemente indeciso e disilluso protagonista, questo ormai ex-ragazzo di buona famiglia che ha visto crollare attorno a sé, un pezzo alla volta, il mondo in cui era nato e cresciuto, che ha visto la sua città, Vienna, invasa dalle truppe con la croce uncinata, ridotta, da capitale di un Impero sovranazionale, a provincia di uno Stato nazionalista e xenofobo, da Re a lacchè.

E allora, in perfetta coerenza, nel giorno che sancisce al di là di ogni dubbio la fine di quell’Austria-Ungheria che, spregiata da molti, fu rimpianta dagli stessi pochi anni dopo la sua fine, il protagonista dell’ultimo romanzo di Roth, pubblicato (in Olanda) pochi mesi prima della sua morte, va a chiudersi nell’unico bozzolo di passato che gli è rimasto, quella Cripta che serba le spoglie mortali dei suoi Imperatori, quella capsula del Tempo che ancor oggi conserva il ricordo tangibile di un mondo intero e dei suoi sconsideratamente vituperati valori.

Testamento spirituale del suo Autore, questo piccolo e imperfetto romanzo riesce, in meno di duecento pagine, a racchiudere e sigillare, come in una cripta, l’essenza stessa di un mondo tramontato nell’istante esatto in cui tramontava definitivamente, e offre una delle più toccanti e fedeli disamine dei pregi e dei difetti di un’epoca attraverso la voce irresoluta e melanconica di un uomo debole come debole è stato, in fondo, il mondo cui egli apparteneva, quel mondo di ieri della cui fine Joseph Roth è stato uno dei principali cantori.

(Recensione scritta ascoltando Ludwig van Beethoven, “Sonata per pianoforte n. 14 in Do diesis minore “Al chiaro di luna”)

PREGI:
“La Cripta dei Cappuccini” è uno dei più incredibili instant book della storia della letteratura: scritto nel 1938, proprio durante la conquista dell’Austria da parte della Germania nazista, uscì in sordina quello stesso anno in Olanda ma ebbe un’edizione vera e propria solo nel 1950. Libro perfetto per chi vuole cogliere, in meno di 200 pagine, l’essenza di quello che furono l’Impero Asburgico e l’Austria-Ungheria. Straordinario e commovente il finale 

DIFETTI:
la scrittura è innegabilmente un po’ datata e risente di certe influenze d’inizio Novecento, come la Neue Sachlichkeit, che la fanno sembrare, a tratti, incoerente e ondivaga. Ma la lucidità con cui l’Autore sa osservare e trasmettere, con rapidi tocchi, l’essenza del mondo di cui racconta il declino riscatta ampiamente le piccole bizzarrie stilistiche 

CITAZIONE:
“Vecchio e solitario, lontano e per così dire pietrificato, pure vicino a tutti noi, viveva e regnava il vecchio imperatore Francesco Giuseppe. Forse negli strati più profondi delle nostre anime erano sopite quelle certezze che la gente chiama presentimenti, prima fra tutte la certezza che il vecchio imperatore moriva, ogni giorno in più di vita era un altro passo verso la morte, e insieme con lui moriva la monarchia, non tanto la nostra patria, quanto il nostro impero, qualcosa di più grande, più vasto, più nobile che non una semplice patria.” (pagg. 19-20)

GIUDIZIO SINTETICO: ****

LEGENDA RECENSIONI
Sia per i libri che per i film, adotto nel giudizio sintetico il sistema Mereghetti, che va da 0 a 4 stelline: a 0, ovviamente, i giudizi più negativi, a 4 quelli più positivi, con tutti i possibili gradi intermedi…

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NON GIUDICABILE con i sistemi ìclassiciî di voto
PESSIMO
QUASI PESSIMO
BRUTTO
BRUTTINO
 
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**1/2
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***1/2
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ACCETTABILE
DISCRETO
BUONO
MOLTO BUONO
CAPOLAVORO