LECTIO BREVIS / 180

Testi, pre-testi, divagazioni e spunti minimi intorno a libri letti, riletti, sfogliati

A cura di Roberto Mandile

PUNTATA 180
IL SENSO DEL MISTERO PER IL GIAPPONE
Tra ragazze scomparse e uccise nei romanzi moderni e lo spirito dello Yugen negli haiku tradizionali

Murakami Haruki – LA RAGAZZA DELLO SPUTNIK (1999)

Di cosa parla: Giappone. L’amicizia tra il narratore, giovane studente prima e poi insegnante elementare, e Sumire, ragazza che ama la letteratura e la scrittura, è tanto profonda quanto asimmetrica, in quanto l’attrazione anche sessuale che lui sente non è ricambiata da lei. Sumire sembra, infatti, del tutto impermeabile all’amore. Almeno fino a quando non conosce Myū, una donna d’affari coreana sposata, che fin da subito prova simpatia per la giovane giapponese, al punto da offrirle un lavoro. Le due stringono un rapporto sempre più stretto, anche se l’amore di Sumire non viene ricambiato da Myū. Ma una svolta inaspettata e assai misteriosa arriverà durante una vacanza di lavoro in Europa…

Commento: I libri di Murakami giocano spesso su un confine sottile tra la realtà e la fantasia. Il confine si trova, in questo caso, circa a metà del romanzo e viene attraversato in modo quasi circospetto, facendo credere al lettore che, in realtà, non tutto quello che viene narrato può o deve essere necessariamente vero. L’autore, bravissimo come (quasi) sempre nel tratteggiare i personaggi (qui di fatto solo tre, e tutti in qualche misura velati da un alone di mistero: il narratore, che non ha nome; Sumire, il cui nome parlante vuol dire “violetta”; e Myū, di cui il narratore non saprà neanche il cognome), gioca su un sottile discrimine, in termini strettamente narrativi. Se, infatti, la prima parte del romanzo delinea, realisticamente, le fisionomie e i rapporti fra i tre personaggi, nella seconda parte Murakami spinge decisamente sul pedale del surrealismo. Fa capolino, soprattutto nel finale, qualche elucubrazione di troppo, non scevra forse da una certa misticheggiante sentenziosità, ma prevale il fascino dello spiazzamento cui si viene messi di fronte da una storia che, in fondo, pare assumere i toni della parabola sulla incomunicabilità e sulla solitudine. Con – lo ripetiamo – qualche eccesso lirico qua e là vagamente new age, ma anche con una buona dose di affettuosa cura per i destini dei suoi personaggi, accomunati dell’impossibilità di comprendersi, di incontrarsi davvero, di essere pienamente felici. Lo Sputnik del titolo deriva da un fraintendimento di Myū su Kerouac, autore di culto di Sumire, e la letteratura beatnik; ogni valenza allegorica è, naturalmente, chiarissima, alludendo alla siderale distanza tra i personaggi, orbitanti, come satelliti nello spazio, in un vuoto che forse solo la scrittura, lievissima e affascinante di Murakami, riesce almeno in parte a riempire di un qualche senso.

GIUDIZIO: ***

Yoshida Shūichi – L’UOMO CHE VOLEVA UCCIDERMI (2007)

Di cosa parla: Ishibashi Yoshino ha un appuntamento con un uomo conosciuto su un sito di incontri, ma alle amiche con cui ha appena passato la serata ha fatto credere, prima di congedarsi, che colui con cui dovrà vedersi di lì a poco in un parco di Fukuoka è uno studente con il quale ha intrecciato una relazione. Quando, però, il giorno dopo il suo cadavere viene ritrovato nei pressi del valico di Mitsuse, la verità comincia a emergere: la giovane donna è stata strangolata prima di essere abbandonata in quel luogo isolato e impervio. Chi è l’assassino? E chi ha davvero incontrato la sera in cui è stata uccisa? Ma, soprattutto, chi era Yoshino e perché aveva tenuto nascosta a amici e familiari la sua vita segreta?

Commento: Feltrinelli ci avverte, in quarta di copertina, che “è la storia di un delitto, di un omicida e di una fuga disperata, ma non è un semplice poliziesco”. E, non paga, aggiunge che “è uno spaccato della società giapponese, un romanzo psicologico che indaga le ragioni che spingono una persona a uccidere e, infine, è la storia di un amore impossibile”. Di fronte a un monito del genere, la nostra diffidenza naturale si attiva: abituati come siamo a considerare la cosiddetta “letteratura di genere” autosufficiente e a valutare i libri dalla storia, dai personaggi, dalla scrittura e non dalle ambizioni o dalle letture a posteriori, siamo convinti che, fatte salve le eccezioni (che si chiamino Gadda o Sciascia, Dürrenmatt o Eco), un giallo debba innanzitutto bastare a sé stesso. Ora, questo romanzo di Yoshida, autore giapponese di successo soprattutto in patria, ci lascia perplessi innanzitutto sul versante della trama poliziesca. Esaurita la curiosità con la scoperta del cadavere (siamo intorno a pagina 50), l’interesse viene anestetizzato da una narrazione piatta che via via sembra mostrarsi sempre più indifferente alle indagini (e fa bene, perché il mistero è tutto sommato modestissimo) per concentrarsi sulle sottotrame o, meglio, sulle trame parallele, in attesa di intrecciare stancamente i fili in un quadro che, però, in conclusione nemmeno il più paziente dei lettori è disposto a prendere più in esame. E anche se nel finale la vicenda dell’amore impossibile tra Yūichi e Mitsuyo è piuttosto ben riuscita, la freddezza dello stile, voluta ma non per questo meno tediosa, non può certo appassionare più di tanto. Quel che convince meno sono i personaggi, piatti, monocordi, indistinguibili l’uno dall’altro (sarà colpa della scarsa dimestichezza con i nomi giapponesi?). Certo, per chi cerca in un romanzo tracce della “solitudine”, della “difficoltà di vivere in una società sempre più complessa, della “desolazione dei paesaggi urbani”, della “incapacità di amare” (così il risvolto di copertina), ci si può provare anche un qualche diletto (e, al di là di qualche pagina di troppo, qualcosa di buono non manca qua e là); chi, più modestamente, si accontenta di un buon giallo, farebbe bene a cambiare libro.

GIUDIZIO: **

PRE-TESTI, DIVAGAZIONI
E SPUNTI MINIMI

“Il concetto di Yugen, intrinsecamente legato alla cultura giapponese, rappresenta un’estetica del mistero che trascende la mera bellezza. Si configura come un’attrazione verso l’invisibile, un’immersione nel vago e nell’indefinito, un’emozione profonda che scaturisce dalla contemplazione di ciò che eccede la piena comprensione. Di fronte all’immensità dell’universo e al mistero dell’esistenza, lo Yugen evoca un brivido reverenziale, un senso di timore e fascino che connette l’individuo alla profondità del proprio essere.”

Così inquadra l’idea di mistero che pervade la cultura giapponese Tiziana Moschetti in un articolo sulla rivista online meer.com, che chiarisce molto bene come lo Yugen, le cui tracce si scorgono anche in altri ambiti (la cerimonia del tè, un giardino zen), sia alla base anche della più tipica poesia giapponese, l’haiku in particolare, il genere più breve e più noto, anche se non il più antico.

A proposito dello Yugen, Leonardo Vittorio Arena (nella prefazione a una raccolta di haiku per la BUR) spiega che “il termine è composto da due caratteri, yū e gen. Il primo significa «vago», «confuso», «flebile», «indistinto», «nebbioso»; l’altro, «occulto», «misterioso» e «oscuro». Si può rendere pertanto con «profondità misteriosa». Il suo fascino consiste nel non poter mai essere completamente vagliata e svelata”.

Il punto fondamentale è il rapporto con la natura, indagato dai poeti nei termini sospesi dell’osservazione che lascia spazio a una contenuta, sempre accennata espressione dei sentimenti individuali. È la realtà stessa, nella sua totalità, a contenere il mistero: non è in nessun modo possibile scindere le manifestazioni concrete del reale dal livello inaccessibile, profondo di mistero che è ad esse connaturato. Ecco perché, nella poesia tradizionale giapponese, nulla del mondo naturale può essere escluso: l’apparente facilità dell’haiku è espressione di una essenzialità difficile da attingere e ancora più ardua da commentare. Come osserva sempre Arena, “commentare un haiku è dunque impossibile: si può solo dire che, in tutta semplicità, qualcosa avviene, e basta”. Lasciamo dunque al lettore il compito di cogliere lo Yugen in due haiku, tra i tantissimi composti nell’arco di circa quattro secoli di storia del genere.

Il primo è di Bashō, il poeta del tardo XVII secolo considerato l’iniziatore del genere:

Ancora, vorrei vedere
tra i fiori dell’alba, vagare
il volto del dio.

Il secondo è di Buson, poeta del XVIII secolo, uno dei grandi autori di haiku:

Fiori di tè:
bianchi? Gialli?
Quale dubbio!

Testi citati
Bashō – Ancora, vorrei vedere – traduzione di Leonardo Vittorio Arena (XVII secolo)
Buson – Fiori di tè – traduzione di Leonardo Vittorio Arena (XVIII secolo)