Testi, pre-testi, divagazioni e spunti minimi intorno a libri letti, riletti, sfogliati
A cura di Roberto Mandile
PUNTATA 116
SCRITTORI CHE PARLANO DI E A SCRITTORI
Opinioni, critiche, consigli: quando scrivere è un mestiere
Rex Stout – NERO WOLFE DISCOLPATI (1959)
Di cosa parla: Un caso di plagio letterario: così si presenta agli occhi di Nero Wolfe la vicenda sulla quale un gruppo di scrittori e editori ha richiesto i servigi del celebre investigatore. Ma mentre le indagini sono in corso, le cose sfuggono di mano e ben tre omicidi verranno commessi. La questione diventa tanto grave che il grande detective, coadiuvato al solito da Archie Goodwin, dovrà recitare il mea culpa e persino fare voto di non mangiare più carne e bere birra fino alla soluzione del mistero…
Commento: Archie Goodwin, l’assistente di Nero Wolfe, è forse la reinvenzione più originale della voce narrante della letteratura gialla, espediente narrativo nato col genere stesso, da Poe a Conan Doyle (lo adottò, agli inizi, anche Agatha Christie). Il che basterebbe a dimostrare, se mai ce ne fosse bisogno, la grandezza letteraria di Rex Stout, che può dunque permettersi di non offrire una rappresentazione edulcorata degli scrittori: già nel secondo romanzo con Nero Wolfe, La lega degli uomini spaventati, si raccontava dei timori di un professore universitario di essere ammazzato da un suo vecchio compagno di scuola, diventato nel frattempo scrittore di gialli (il quale, in realtà, avrebbe avuto un valido movente, considerato che i suoi amici di un tempo lo avevano reso storpio per uno scherzo mal riuscito). Qui, nel ventiduesimo caso del pachidermico investigatore newyorchese, il mondo editoriale ne esce ancora peggio: il plagio, lo stigma più infamante per gli scrittori, scatena i peggiori istinti, al punto che, nonostante la consueta ironia di fondo, al racconto di Archie Goodwin (scrittore a sua volta, per quanto inconsapevole) tocca registrare l’eccezionalità della situazione: Nero Wolfe non solo dovrà lasciare la sua abitazione ma sarà obbligato a uno sforzo di concentrazione suppletivo, il che, per un uomo eccentrico sì ma straordinariamente controllato e abitudinario come lui, si traduce nella momentanea privazione dei piaceri del cibo. E dire che c’è chi ha scritto libri sulle ricette di Nero Wolfe…
GIUDIZIO: ***

Philip Roth – LA CONTROVITA (1986)
Di cosa parla: Diventato impotente a seguito dell’assunzione di farmaci salvavita, Henry Zuckerman, dentista, sposato con tre figli, è morto a trentanove anni a seguito del rischioso intervento chirurgico a cui si è sottoposto per recuperare la propria virilità. All’origine della scelta, il desiderio di non interrompere una relazione extraconiugale. Al funerale di Henry, suo fratello Nathan, il celebre scrittore ebraico, rinuncia a pronunciare l’elogio funebre. I rapporti tra i due erano diventati più difficili dopo che Henry, qualche tempo prima, aveva deciso di trasferirsi in Israele per aderire a un gruppo estremista di guerriglieri. Ma forse le cose non stanno esattamente come sono state raccontate…
Commento: Nathan Zuckerman, alter ego dell’autore, è figura notissima ai lettori di Roth. Mai come in questo libro però l’autore gioca con i ferri del mestiere dello scrittore, facendo vedere, attraverso un geniale meccanismo di scomposizione della struttura stessa del romanzo, come ogni opera di invenzione intrattenga un rapporto ambiguo con la realtà oggetto della narrazione stessa. Lo scrittore è dotato di un potere pressoché divino di creazione che lo mette in una condizione di superiorità etica tale da consentirgli di non tenere in considerazione le ricadute che i suoi libri provocano nelle vite delle persone: sono di questo segno le critiche che vengono mosse a Zuckerman, reo di non aver mostrato alcuna sensibilità né nei confronti dei suoi familiari (a partire dai genitori!) né nei riguardi della comunità ebraica tutta (le discussioni su questo tema toccano qui vertici di lucidità assoluta anche all’interno dell’opera di Roth). C’è poi da valutare quanto siano proprio i romanzi, il genere più popolare ma anche quello più smaccatamente connesso alla fantasia o, come si dice oggi, alla creatività degli scrittori, a determinare l’equivoco al centro del libro di Roth (e del libro nel libro di Zuckerman): fino a che punto, ad esempio, è lecito considerare la diatriba tra fratelli al centro del meraviglioso capitolo “Giudea”, come semplice frutto di invenzione e non, piuttosto, come un formidabile compendio della questione arabo-israeliana, tanto più interessante e appassionante in quanto plasmato in forma narrativa? Tutto è letteratura – suggerisce Roth – ma ben pochi sono disposti a riconoscerlo e, soprattutto, a fare i conti con le conseguenze che, come indica l’amaro finale del libro, inevitabilmente scaturiscono dall’ironia con cui i bravi scrittori sanno di dover affrontare la realtà, a meno che non scelgano come Maria, la moglie cristiana di Nathan, di eluderla e di rifugiarsi altrove, in quella che Zuckerman definisce la visione “pastorale”. E l’ironia non è altro che scrittura, l’unica strada che Philip Roth abbia perseguito come religione nella sua straordinaria parabola letteraria, di cui questo libro è indubbiamente uno dei capisaldi, ancorché dei meno celebrati.
GIUDIZIO: ****

PRE-TESTI, DIVAGAZIONI
E SPUNTI MINIMI
Gli scrittori non hanno fatto mai mancare consigli, richiesti e non, ad altri scrittori, in genere aspiranti. Alla tentazione non hanno resistito neanche i grandi scrittori, con risultati altalenanti. Ad esempio, riteniamo che le indicazioni che Primo Levi fornisce a un giovane lettore (ventisette anni, con maturità classica e un impiego modesto) che “desidera scrivere, e più precisamente narrare”, sono la conferma della grandezza dell’autore, il quale confessa di essere in imbarazzo, in quanto l’aspirante chiede consigli su come scrivere, non essendosi posto “il dilemma fondamentale, cioè se scrivere o no”. Con spirito pratico, dettato dalla considerazione che in Italia quelli che si guadagnano di che vivere scrivendo sono pochissimi (“non più di qualche decina”), Levi suggerisce al lettore innanzitutto di “tenersi caro il Suo impiego”, considerato che “il tempo per scrivere lo troverà comunque”. Ma, non volendo sottrarsi all’onere di offrire “consigli pratici e specifici”, che – aggiunge subito – esistono “ma per fortuna non hanno validità generale”, giacché “se l’avessero tutti gli scrittori scriverebbero allo stesso modo”, l’autore di Se questo è un uomo raccomanda, tra le altre cose, di lasciar riposare i romanzi nel cassetto per potersi accorgere, a una seconda lettura, che quasi sempre “si è peccato per eccesso, che il testo è ridondante, ripetitivo, prolisso”. Forse, però, il consiglio più prezioso Levi lo riserva nella conclusione del suo breve testo, allorché ricorda che scrivere è innanzitutto tenere a bada il proprio io che tende a debordare sulla pagina:
“Dopo novant’anni di psicoanalisi, e di tentativi riusciti o falliti di travasare direttamente l’inconscio sulla pagina, io provo un bisogno acuto di chiarezza e razionalità, e credo che la maggior parte dei lettori la pensino nello stesso modo. Non è detto che un testo chiaro sia elementare; può avere vari livelli di lettura, ma il livello più basso, secondo me, dovrebbe essere accessibile ad un pubblico vasto. Non abbia paura di fare un torto al Suo es imbavagliandolo, non c’è pericolo, «l’inquilino del piano di sotto» troverà comunque il modo di manifestarsi, perché scrivere è denudarsi: si denuda anche lo scrittore più pulito. Se denudarsi non Le piace, si accontenti del Suo lavoro attuale. Dimenticavo di dirLe che, per scrivere, bisogna avere qualche cosa da scrivere”.
Non ci sembra, invece, che siano particolarmente riusciti i consigli di un altro grandissimo scrittore, Charles Bukowski. È infatti con una certa perplessità che leggiamo una sua poesia, E così vorresti fare lo scrittore?, pubblicata postuma, nella quale ci pare di trovare un’idea fin troppo banalmente romantica dell’attività dello scrivere da parte di un autore che pure apprezziamo per la chiarezza e la capacità di dissimulare attraverso un costante scrupolo stilistico i propri istinti autobiografici:
E così vorresti fare lo scrittore?
Se non ti esplode dentro
a dispetto di tutto,
non farlo.
a meno che non ti venga dritto dal
cuore e dalla mente e dalla bocca
e dalle viscere,
non farlo.
se devi startene seduto per ore
a fissare lo schermo del computer
o curvo sulla
macchina da scrivere
alla ricerca delle parole,
non farlo.
se lo fai solo per soldi o per
fama,
non farlo.
se lo fai perché vuoi
delle donne nel letto,
non farlo.
se devi startene lì a
scrivere e riscrivere,
non farlo.
se è già una fatica il solo pensiero di farlo,
non farlo.
se stai cercando di scrivere come qualcun
altro,
lascia perdere.
se devi aspettare che ti esca come un
ruggito,
allora aspetta pazientemente.
se non ti esce mai come un ruggito,
fai qualcos’altro.
se prima devi leggerlo a tua moglie
o alla tua ragazza o al tuo ragazzo
o ai tuoi genitori o comunque a qualcuno,
non sei pronto.
non essere come tanti scrittori,
non essere come tutte quelle migliaia di
persone che si definiscono scrittori,
non essere monotono o noioso e
pretenzioso, non farti consumare dall’auto-
compiacimento.
le biblioteche del mondo hanno
sbadigliato
fino ad addormentarsi
per tipi come te.
non aggiungerti a loro.
non farlo.
a meno che non ti esca
dall’anima come un razzo,
a meno che lo star fermo
non ti porti alla follia o
al suicidio o all’omicidio,
non farlo.
a meno che il sole dentro di te stia
bruciandoti le viscere,
non farlo.
quando sarà veramente il momento,
e se sei predestinato,
si farà da sé
e continuerà
finché tu morirai o morirà in
te.
non c’è altro modo.
e non c’è mai stato.

Testi citati
Primo Levi – A UN GIOVANE LETTORE, in L’altrui mestiere (1985)
Charles Bukowski – E COSÌ VORRESTI FARE LO SCRITTORE? – traduzione di Simona Vinciani (2007)