Testi, pre-testi, divagazioni e spunti minimi intorno a libri letti, riletti, sfogliati
A cura di Roberto Mandile
PUNTATA 130
IMMAGINARE IL FUTURO
Il progresso ci salverà o il Medioevo deve ancora venire?
Evgenij Ivanovič Zamjatin – NOI (1924)
Di cosa parla: XXVI secolo. D-503, ingegnere addetto alla costruzione della nave spaziale chiamata l’Integrale, affida alle note del suo diario, da inviare nello spazio verso altri pianeti, il resoconto della vita sua e degli abitanti dello Stato Unico. Essi vivono in case di vetro, sorvegliati dai Custodi, e indossano uniformi identiche, al punto che la loro identità di esseri umani è stata sostituita da quella di matricole. Si nutrono di cibo sintetico e si accoppiano secondo modalità prestabilite. A capo dello Stato Unico c’è un Benefattore, eletto ogni anno all’unanimità. Il tutto perché la felicità non può che consistere nella mancanza di libertà. Le cose si complicano quando alcune matricole, tra cui il protagonista, sembrano covare istinti di ribellione…
Commento: Uscito nel 1924 in traduzione inglese in Gran Bretagna, è l’opera che più di tutte segnò la sorte personale del suo autore, censurato in patria, dove il libro fu pubblicato solo nel 1988, e costretto poi a emigrare in Occidente (Zamjatin morirà nel 1937 a Parigi, dove viveva in povertà dal 1932). Romanzo che influenzò lo sviluppo di molta letteratura distopica, a partire da George Orwell che lo recensì nel 1946 in un articolo in cui lo paragonava a Il mondo nuovo di Huxley, edito nel 1932. A dispetto della struttura di fondo della storia, è un libro complesso, caratterizzato da uno stile nervoso, da una narrazione tutt’altro che lineare, spezzata in capitoletti (le “note” del diario del protagonista), e da una lingua piena di invenzioni sul piano lessicale e caratterizzata del ricorso a una punteggiatura anticonvenzionale, con l’uso insistito di lineette a frammentare ulteriormente lo scorrere delle frasi. Se sono evidenti i riferimenti, precocissimi, al totalitarismo sovietico, che sacrificherà la libertà individuale in nome della felicità collettiva (ma all’epoca in cui il romanzo fu scritto la Rivoluzione Russa era appena avvenuta e lo stalinismo ancora di là da venire), sarà bene cogliere, sulla scia di Alessandro Cifariello, cui si deve la più recente (bellissima) traduzione, i riferimenti alla letteratura russa, dalle Memorie del sottosuolo (ma non solo) di Dostoevskij ai Brandelli dalle memorie di un pazzo di Gogol’. Perché il libro è, proprio nella sua visionarietà, che passa attraverso quel suo già evocato carattere frammentario e quasi sussultorio, anche un esempio tra i più interessanti di letteratura filosofica, capace di fondere, in modo talora criptico, spunti satirici, riflessioni etiche, allusioni simboliche e riferimenti matematici.
GIUDIZIO: ***

Primo Levi – VIZIO DI FORMA (1971)
Di cosa parla: C’è un gruppo di scienziati che svolge ricerche su un comportamento suicida nei lemming. C’è Mario, un ragazzino che a scuola viene preso in giro dai suoi compagni per la sua diversità: infatti è un “sintetico”. C’è il vilmy, un animale il cui latte dà dipendenza a chi lo beve. C’è l’ingegner Masoero, dipendente di un’azienda di rete telefoniche, alla quale giungono strane segnalazioni di malfunzionamenti. C’è il knall, un’arma a forma di sigaro dalla potenza micidiale. C’è il parco dei personaggi letterari. C’è la “Nutrice”, una sorta di nuvola che, ogni cento anni, arriva su un villaggio povero distribuendo dall’alto latte. C’è Enrico che accetta di farsi tatuare sulla fronte un messaggio pubblicitario…
Commento: I venti racconti della seconda raccolta di Primo Levi, nata – per ammissione dello stesso autore – all’ombra del saggio Il Medioevo prossimo venturo di Roberto Vacca, testimonia dell’ampiezza di interessi dello scrittore torinese. Perché, se è vero che, per comodità, il libro viene catalogato alla voce “fantascienza”, la varietà di temi, superiore rispetto alla raccolta precedente Storie naturali, fa di questa silloge un unicum nella letteratura italiana degli anni Settanta (e probabilmente non solo). Levi usa il racconto come una sorta di passe-partout per accedere ad alcuni grandi temi oggetto di interesse per la scienza ma anche fonte di discussione tra profani: i rischi dello sviluppo tecnologico, la psicologia degli individui e della collettività, le forme di dipendenza, la società di massa, il consumismo, persino la manipolazione genetica e, più in generale, l’interazione tra l’uomo e la natura. I toni dei racconti rispecchiano l’eterogeneità tematica: certo, prevale una visione critica, anche se in genere non cupa o inquietante, talora anzi venata di ironia. Il che, però, unito alla impeccabile limpidezza della lingua di Levi, finisce per far risaltare, coerentemente con il titolo, l’idea che, al fondo, l’umanità presenta un “vizio di forma” che la condanna alla ripetizione di errori o la rende succuba di condizionamenti esteriori, ma ancor più delle proprie debolezze, della propria vanità, della propria ambizione e del proprio conformismo (esemplare, in questo senso, il racconto In fronte scritto). Se la fantascienza di Italo Calvino – cui è dedicato il racconto Il fabbro di se stesso, ispirato alle Cosmicomiche – è perlopiù divertita o cerebrale, figlia com’è di giochi combinatori e di sperimentazioni linguistiche e filosofiche talora spericolate, quella di Levi è decisamente più razionale, anche sul piano letterario, e più attenta ai risvolti psico-sociologici. Come se, anche quando la realtà viene messa in discussione dall’invenzione, lo scrittore non potesse fare a meno di tornare continuamente ad essa, per metterne a fuoco, attraverso le distorsioni della fantasia, la sua natura intrinsecamente e perennemente difettosa.
GIUDIZIO: ***

PRE-TESTI, DIVAGAZIONI
E SPUNTI MINIMI
Diceva Charles Darwin che la teoria dell’evoluzione non necessariamente comporta un’idea di progresso. Eppure, c’è modo e modo di contestare il progresso. Un modo ce lo ha fatto conoscere il Ministero dell’Istruzione, proponendo, nella prova di italiano dell’ultimo Esame di Stato (noto ai più come Maturità), una dimenticabile poesia di Salvatore Quasimodo. Il testo s’intitola “Alla nuova luna” e vorrebbe, con una decina d’anni d’anticipo sull’impresa dell’allunaggio, essere una condanna, qualcosa tra una predica e un monito, della corsa allo spazio, esempio di quella che gli antichi Greci (la traduzione delle cui liriche, a giudizio di molti, resta l’opera più riuscita del poeta siciliano) definivano hybris, la tracotanza che è sfida agli Dei e che, come tale, non può che essere severamente punita:
In principio Dio creò il cielo
e la terra, poi nel suo giorno
esatto mise i luminari in cielo
e al settimo giorno si riposò
Dopo miliardi di anni l’uomo,
fatto a sua immagine e somiglianza,
senza mai riposare, con la sua
intelligenza laica,
senza timore, nel cielo sereno
d’una notte d’ottobre,
mise altri luminari uguali
a quelli che giravano
dalla creazione del mondo. Amen.
La poesia, si diceva, è dimenticabile; il pensiero espresso da Quasimodo è talmente elementare da non meritare quell’analisi del testo che pure è stata richiesta con grande zelo ai maturandi. L’unica chiosa che ci sovviene è il secondo modo di criticare il progresso: in modo laterale, ironico, distaccato eppure ben più incisivo. Come, ad esempio, fa in un suo distico Juan Rodolfo Wilcock:
Beati loro che pensano al progresso:
io solo penso alla morte o al sesso.

Testi citati
Salvatore Quasimodo – ALLA NUOVA LUNA, in “La terra impareggiabile” (1958)
Juan Rodolfo Wilcock – SUL PROGRESSO, in “Poesie” (1980)