Testi, pre-testi, divagazioni e spunti minimi intorno a libri letti, riletti, sfogliati
A cura di Roberto Mandile
PUNTATA 169
NERO, MOLTO NERO, ANZI NERISSIMO
Gradazioni e sfumature dell’orrore, più o meno riuscite
Patricia Highsmith – LA CASA NERA (1981)
Di cosa parla: Che cosa fare quando la quiete di una famiglia rispettabile viene interrotta, una sera, dal gatto che, di ritorno dai suoi consueti giri, porta in casa un paio di dita umane? O, ancora, che dire di un cesto di vimini malridotto trovato su una spiaggia e prontamente aggiustato da una donna che non ha nessuna pratica di quel genere? Per non parlare della coppia di anziani che due coniugi, in un impeto di generosità, hanno deciso di ospitare in casa loro, senza pensare alle conseguenze? E come si dovrebbe comportare l’annoiata moglie di un diplomatico italiano alle prese con un paio di seccatori particolarmente importuni? Quale coraggio poi ci vuole per entrare nella casa nera sulla collina dove, secondo quanto si dice, anni prima sono stati commessi atti nefandi?
Commento: Diciamolo subito: se, com’è probabile, associate il nome di Patricia Highsmith al thriller, e se, di conseguenza, vi aspettate dagli undici racconti di questa raccolta (un paio dei quali già pubblicati in precedenza) di provare sani brividi di terrore, è meglio chiarire che ben poche delle vostre attese verranno soddisfatte. Nella maggioranza dei casi, infatti, i testi sono difficilmente riconducibili al genere più caro all’autrice: non solo scarseggiano i morti ammazzati (uniche eccezioni: La preda del gatto e, in parte, La casa nera) e i crimini in generale, ma persino la tensione e la suspense, vero marchio di fabbrica della scrittrice americana,latitano. E se, pur prescindendo da questo, non mancano alcuni racconti interessanti, curiosi, abbastanza coinvolgenti (oltre a quelli già citati, probabilmente il più riuscito è Anziani in casa), altrove fanno capolino la noia (la palma per noi va a Il sogno della Emma C.), l’insignificanza (Non era uno di noi) o l’inconcludenza (deludenti, soprattutto per il finale, L’indeciso e L’aquilone). Quando Highsmith fa quello che sa fare meglio, ossia inserire un elemento di incongruenza nelle vite apparentemente lineari di uomini e donne comuni, il lettore è gratificato di qualche sussulto, anche se troppo spesso si tratta di palpiti passeggeri; quando invece decide di rinunciare del tutto agli ingredienti che le sono più cari, il risultato è piuttosto sciapo (vedi, ad esempio, il racconto, Disprezzo la tua vita, ormai datato ritratto del conflitto generazionale padri-figli). A dimostrazione che i limiti del genere, più che una gabbia, sono talora un’opportunità.
GIUDIZIO: **
Thierry Jonquet – TARANTOLA (1984)
Di cosa parla: Richard Lafargue è uno stimato chirurgo plastico, dalla vita apparentemente tranquilla e ordinaria. Ma allora, perché tiene richiusa in una camera della sua casa Ève, costringendola a prostituirsi occasionalmente, godendo peraltro sadicamente delle torture che alcuni clienti le infliggono? E che rapporto c’è tra i due e Alex Barny, un piccolo delinquente obbligato a nascondersi da quando, nel corso di una rapina a una banca, ha ucciso un poliziotto? Forse, la risposta sta nella scomparsa di Vincent Moreau, di cui da quattro anni non si hanno più notizie: catturato misteriosamente una notte in una foresta da qualcuno che si era messo sulle sue tracce…
Commento: Un noir, come dice Einaudi (d’altronde francesi sono sia l’autore sia l’ambientazione), forse meglio un thriller, ma con qualche tocco appena di fantastico (fantascientifico?): le classificazioni non convincono del tutto di fronte a questo libro, il più famoso (specie dopo la versione cinematografica di Pedro Almodóvar, con il titolo La pelle che abito) di un autore assai poco noto. I principali pregi del romanzo – diciamolo subito – sono la storia e la capacità di Jonquet di raccontarla in neanche centocinquanta pagine. Non sono meriti da poco: l’idea di fondo è azzeccata, originale e inquietante; la graduale rivelazione delle risposte agli interrogativi angosciosi che accompagnano il lettore dall’inizio è efficace e il colpo di scena finale lascia il segno. Detto questo, che cosa ci trattiene dal gridare al capolavoro? Sono alcuni dettagli a lasciare qualche perplessità: certi risvolti della storia e la caratterizzazione dei personaggi, per cominciare. Partiamo da questi ultimi, che appaiono un po’ sacrificati alle esigenze della trama per essere del tutto convincenti (Alex, ad esempio, ci pare un prodigio di ingenuità, mentre Richard è per molti versi irrisolto). Sono poi alcune scelte stilistiche a convincere poco: le sezioni che riguardano Vincent Moreau, ad esempio, che si inframmezzano, non sempre felicemente, alle altre due vicende (quelle di Lafargue e di Barny), e nelle quali l’autore si rivolge direttamente al personaggio, sono forse le più deboli, per quanto non manchino qua e là di incisività. E occorre aggiungere che i dialoghi non sono sempre felicissimi, sfiorati come sono talvolta da lampi di comicità involontaria. Jonquet comunque padroneggia la materia, nerissima, della sua storia e, se pecca, lo fa per amore d’efficacia e non per velleità da bello stile. Il che rende il romanzo una lettura agevolissima, priva com’è di fronzoli o di divagazioni (cui la trama avrebbe potuto benissimo lasciare adito!).
GIUDIZIO: **½
PRE-TESTI, DIVAGAZIONI
E SPUNTI MINIMI
L’orrore ha diversi padri. Edgar Allan Poe, senz’altro, autore, nel primo Ottocento, di racconti capolavoro che possono essere considerati tra i primi esempi di un genere destinato a enorme fortuna. Poi Mary Shelley, il cui Frankenstein, scritto quasi per gioco a diciannove anni, resta uno dei capisaldi dell’horror, anche per l’enorme fortuna cui la creatura mostruosa andrà incontro grazie al cinema e non solo. Poi ancora Bram Stoker e il suo Dracula, altro capolavoro di rara longevità nell’immaginario anche extraletterario.
Ma che cosa c’è dietro un capolavoro? No, non quello che si pensa in genere. Un colpo di genio, una notte insonne, un’ispirazione fulminea. E neanche il labor limae, la fatica dell’artigiano che – come teorizzano tanti scrittori – non si deve vedere ma è essenziale alla riuscita (Jack London parlava di almeno “cinque anni di apprendistato per diventare un fabbro esperto”). Beninteso: non è che questi elementi non possano e, per certi versi, debbano esserci. Ma, talora, dietro un capolavoro c’è semplicemente un altro capolavoro. Lo dimostra il caso di un racconto dell’orrore di Robert Louis Stevenson, che anticipa, sotto molti aspetti, temi e atmosfere de Il dottor Jekyll e il signor Hyde, che sarà pubblicato pochi anni dopo. Si intitola Il trafugatore di salme; la storia in sé è semplice: si parla di due giovani dottori che si occupano dei cadaveri necessari per il corso di anatomia dell’università presso la quale stanno studiando, all’ombra dell’inquietante professor Macfarlane. Le cose si tingono di mistero quando una notte uno dei due si accorge che il corpo appena giunto è quello di una prostituta incontrata qualche ora prima.
Ma ancora peggio sarà la macabra scoperta che i due faranno di lì a poco, in un cimitero di campagna dove si recheranno, in una notte di pioggia, per trafugare un cadavere fresco di sepoltura. Il racconto è breve (una trentina di pagine appena) e già questo basterebbe a decantare per l’ennesima volta – se mai ce ne fosse bisogno – la grandezza di Stevenson. Ma quel che fa del racconto un capolavoro è appunto la straordinaria capacità di dare forma narrativa alle angosce profonde che abitano dentro di noi: la scienza è, qui come nel romanzo più celebre, la chiave di volta per dare espressione agli interrogativi più oscuri sul senso stesso del limite.
Tra la vita e la morte, c’è una zona grigia che, per quanto ci sforziamo di esorcizzare (è quello che prova a fare il giovane dottor Fettes, narratore della storia), è destinata a ossessionarci, anche a distanza di tempo (la vicenda è raccontata in flashback, quando Fettes, dopo molti anni, rincontra per caso, in un club, il dottor Macfarlane). Il finale del racconto, nel quale Stevenson concentra tutto l’immaginario classico dell’horror, è perfetto, non sciogliendo l’ambiguità ma, anzi, amplificandola e quasi lasciando al Dottor Jekyll il compito di riprenderla e trasferirla dall’esterno (il conflitto, qui, è tra la razionalità di Fettes e lo squilibrio di Macfarlane) all’interno dello stesso personaggio. Perché se dall’orrore della morte può provenire la conoscenza, il vero orrore nasce dall’immoralità della conoscenza.
L’orrore ha tanti padri, dicevamo. Tra questi anche un poeta, Charles Baudelaire (cui si deve, tra l’altro, la scoperta e la diffusione in Europa di Poe). I fiori del male sono, fin dal titolo, un’opera scandalosa per la dichiarata attrazione per l’orrore, in tutte le sue forme. I testi che celebrano, in toni estatici e morbosi al tempo stesso, la bellezza della morte (con tutto il suo armamentario tradizionale di simboli e di immagini, dagli scheletri ai fantasmi, dai vampiri a Satana stesso), rivelano come la discesa nell’abisso sia innanzitutto descritta e celebrata – in versi impeccabili anche dal punto di vista metrico – in termini estetici. Il gusto per l’ossimoro, figura tra le più ricorrenti nell’opera di Baudelaire, è alla base di questa poetica, come è evidente anche in Horreur sympathique:
Da questo cielo livido, strano,
confuso come il tuo destino,
che pensieri ti scendono nel cuore
deserto? parla, libertino.
– Assetato, mai sazio
dell’incerto e dell’oscuro,
non piangerò come Ovidio
scacciato dall’eden latino.
In voi, squarciati come greti,
o cieli, il mio orgoglio si mira;
le vostre lunghe nubi a lutto
sono i carri da morto dei miei sogni,
nei vostri fuochi si riflette
l’Inferno, gioia del mio cuore.
Testi citati
Robert Louis Stevenson – IL TRAFUGATORE DI SALME (1881)
Charles Baudelaire – SIMPATIA DELL’ORRORE, in “I fiori del male” – traduzione di Giovanni Raboni (1857)
LEGENDA RECENSIONI
Sia per i libri che per i film, adotto nel giudizio sintetico il sistema Mereghetti, che va da 0 a 4 stelline: a 0, ovviamente, i giudizi più negativi, a 4 quelli più positivi, con tutti i possibili gradi intermedi…