SOLITUDINE CARAVAGGIO – Yannick Haenel

# 334 – Yannick Haenel – SOLITUDINE CARAVAGGIO (Neri Pozza, 2021, pagg. 251)

Affascinato fin da quando aveva quindici anni dalla protagonista femminile di un celebre quadro di Caravaggio, del quale per molto tempo ha visto solo una riproduzione parziale, l’Autore va incontro a un vero e proprio shock quando, a Roma, scopre quel quadro nella sua interezza: si tratta di “Giuditta e Oloferne”, impressionante tela che raffigura l’episodio biblico in cui la ragazza ebrea decapita il tiranno assiro. Sensualità e violenza si mescolano nella pittura di Caravaggio in modi spesso incredibili e sorprendenti, e l’Autore ci racconta, in prima persona e mettendosi completamente in gioco, la storia della sua ossessione per questo grande pittore, senza dimenticare di offrire alcune interessanti interpretazioni delle sue opere più note. Il racconto della vita tumultuosa e violenta di Caravaggio si mescola quindi con la parabola esistenziale dell’Autore stesso, che fin da ragazzino ha trovato in Fillide Melandroni (la modella che prestò le sue fattezze alla Giuditta caravaggesca) l’oggetto dei suoi sogni erotici, e che anche in età adulta ha continuato a coltivare per le tele del pittore lombardo un’autentica, travolgente passione.

Sorta di detection che ha per oggetto l’attrazione dell’Autore per Giuditta in particolare e per la pittura di Caravaggio in generale, questo curioso saggio biografico di Yannick Haenel (scrittore francese classe 1967) si presenta come un’opera ibrida e priva di un reale centro, anche concettuale. Cosa vuole fare esattamente l’Autore? Raccontare la vita di Caravaggio, seppur per sommi capi? Indagare la propria passione per i suoi quadri? Fare l’esegesi delle opere più importanti? Scoprire perché a quindici anni, “prigioniero” di un rigido collegio militare, si sia innamorato di una donna dipinta più di quattro secoli prima?

Quello di Haenel è, a tutti gli effetti, un viaggio sentimentale più che cronologico o storico nell’opera e nella vita di Michelangelo Merisi, un viaggio tra quadri e mostre, un percorso che sembra riprodurre, in piccolo, le peripezie del pittore che, dopo una vita di eccessi e di rischi, ma anche di indubbio genio, finì, com’è noto, per commettere un omicidio e visse gli ultimi anni in fuga, braccato dalle autorità pontificie da una parte e dai Cavalieri di Malta dall’altra, per qualcosa di abominevole ma mai chiarito che avrebbe commesso alla Valletta, proprio mentre tentava di rifarsi una vita.

L’Autore preferisce parlare solo dei quadri che ha potuto vedere di persona, nei luoghi che li ospitano (come lo straordinario ciclo dedicato a San Matteo, nella chiesa di San Luigi dei Francesi, a Roma, o le due incredibili tele che descrivono la conversione di San Paolo e la crocifissione di San Pietro, nella Cappella Cerasi, sempre a Roma) oppure in occasione di mostre ed eventi. Non a caso, i quadri che egli non ha potuto ammirare di persona vengono perlopiù ignorati, perché questo “Solitudine Caravaggio” non è un saggio di storia dell’arte e non è una vera e propria biografia: è, piuttosto, un’autobiografia artistica e sentimentale in cui l’Autore, un po’ in stile Carrère, si mette in scena senza filtri e senza ritegno, tentando – quasi terapeuticamente – di affrontare e risolvere certe sue peculiarità di carattere e di formazione.

“San Matteo e l’Angelo” (olio su tela, 1599-1600)

Cosa attrasse un quindicenne francese, impegnato nella disciplinata vita di un collegio militare, nel volto corrucciato e concentrato di una donna dipinta quattro secoli prima da un pittore lombardo a Roma? Come nacque un’infatuazione che si sarebbe trasformata gradualmente in amore folle e assoluto per la pittura in generale e per Caravaggio in particolare?
Racconto di un’ossessione e, allo stesso tempo, tentativo di scoprire e condividere la magia della pittura, “Solitudine Caravaggio” è anche uno scavo piuttosto ben riuscito nella psicologia di Michelangelo Merisi, affrontata sempre dall’irrinunciabile punto di partenza delle opere. Haenel non ricama in aria, non pretende di spiegare nulla sulla base delle teorie, perlopiù astruse e indimostrabili, della psicologia odierna, bensì prende spunto dai dipinti, li osserva, racconta la propria osservazione e il proprio modo viscerale di vivere la pittura, e perviene ad alcune interessanti conclusioni sulla figura del pittore, riconosciutamente uno degli artisti più importanti di tutti i tempi, un innovatore della pittura, osteggiato dai manieristi e quasi dimenticato per tre secoli e mezzo, fino alla riscoperta effettuata da Roberto Longhi a metà del Novecento.

Pur non svelando niente di nuovo, niente che non si possa leggere in una qualunque delle altre biografie dedicate a Caravaggio (una delle più belle, se non la più bella, è recensita proprio su questo sito), Haenel accompagna il lettore nei meandri misteriosi della vita di un uomo che dà l’impressione, in effetti, di aver cercato con la sua stessa esistenza, violenta e contrastata, quel buio (dell’anima?) che i suoi dipinti restituiscono meglio di tutti, quel nero di fondo che sembra caratterizzare l’umanità intera, ma che Caravaggio, ben più di altri, ha sperimentato anche su sé stesso, in prima persona, individualmente, e senza filtri.

Arrivando a uccidere un uomo, vivendo gli ultimi anni braccato e con una condanna a morte pendente sul capo, ma anche in precedenza, frequentando i bassifondi, vivendo immerso in essi, cibandosene e mettendoli su tela (le sue modelle erano perlopiù prostitute romane, tra cui Fillide Melandroni, che prestò le fattezze proprio a Giuditta, della quale Yannick Haenel si sarebbe innamorato perdutamente quattro secoli dopo), traducendo i temi biblici che gli venivano commissionati nella melma ribollente della quotidianità, Caravaggio è stato il primo vero scopritore del sacro nella vita di tutti i giorni, è stato, secondo alcuni, il primo fotoreporter della storia, il primo ad avere il coraggio di proporre una pittura così intensamente e assolutamente pregna di vita – e di morte.

“Giuditta e Oloferne” (olio su tela, 1602)

Tutto questo, il libro di Yannick Haenel lo comunica con finezza e profondità, ma anche con un pizzico di autocompiacimento e qualche cedimento all’improbabile (a volte sembra che l’Autore abbia scoperto i quadri solo in occasione di mostre o esposizioni, come se su Caravaggio non esistessero montagne di libri illustrati facilmente consultabili). Il risultato è un saggio-non-saggio, una biografia-non-biografia, un libro bello e incompleto, come una pietanza che, lungi dal saziare, aumenta anzi l’appetito, e invita ad altre letture e altri punti di vista, forse meno personali ma più rotondi e approfonditi.                                   

(Recensione scritta ascoltando i Dead Can Dance, “Opium”)

PREGI:
indubbiamente ben scritto, il libro è una sorta di rievocazione dei momenti salienti della vita di Caravaggio accostati, in qualche modo, ai vari momenti in cui all’Autore si sono disvelati dei collegamenti sotterranei tra i suoi più celebri quadri, a partire dal fascino esercitato su di lui quindicenne dal volto di Giuditta/Fillide Melandroni   

DIFETTI:
qualche studiata ingenuità (possibile che solo alle mostre l’Autore si accorga di certe cose? I libri non li consulta?) e un tono di fondo che, à la Carrère, non rinuncia a un po’ di vanità e a un pizzico di eccesso di esposizione dell’Io. Di certo non è il libro più indicato a chi inizi ad avvicinarsi alla figura di Caravaggio

CITAZIONE:
“Si fa un gran parlare del «realismo» di Caravaggio, ma ciò che a lui interessa, ciò che gli sembra reale è questo: il nero – l’incancellabile fondo oscuro che in ogni cosa il gregge umano preferisce dimenticare.” (pag. 145)

GIUDIZIO SINTETICO: ***

LEGENDA RECENSIONI
Sia per i libri che per i film, adotto nel giudizio sintetico il sistema Mereghetti, che va da 0 a 4 stelline: a 0, ovviamente, i giudizi più negativi, a 4 quelli più positivi, con tutti i possibili gradi intermedi…

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NON GIUDICABILE con i sistemi ìclassiciî di voto
PESSIMO
QUASI PESSIMO
BRUTTO
BRUTTINO
 
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***1/2
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ACCETTABILE
DISCRETO
BUONO
MOLTO BUONO
CAPOLAVORO